Il mondo malato di Enrico

La campanella suona. Finalmente la quinta ora è passata. Stamattina è stata dura, la quarta C mi fa dannare. Sono scalmanati, non seguono le spiegazioni. Poi la preside, dico io, ma puoi mettere matematica all’ultima ora? Fanno un casino bestiale. Prendo velocemente il cappotto ed esco.

Quel senso di leggerezza, per la conclusione della mattinata, viene presto interrotto da altri pensieri. Oddio devo tornare in quella casa! Mi sale la nausea. Quel tugurio, in disordine.

Ma chi me l’ha fatto fare? Si presenta la scena, nitida nella mia mente.

Lui nel letto, televisione accesa, sguardo fisso nel vuoto. Posacenere che trabocca di mozziconi. Puzza di fumo stantio con le finestre chiuse. Ogni giorno uguale, la stessa identica storia.

Percorro la strada che mi conduce a casa, come un automa. Guardo dal finestrino il paesaggio. Una macchina davanti a me va a venti chilometri all’ora, come se conoscesse la mia difficoltà nel fare i sorpassi. Sbuffo, mentre cerco una canzone decente alla radio, che continua a frusciare senza risultati.

Da tre anni, vivo dall’altra parte della città, lontana dal mare, nella zona industriale isolata dal mondo, con Enrico.

Apro la porta e lo trovo sul divano. Cavolo oggi ha cambiato posto, mi dico. Che bella novità.

«Ciao», esordisce lui.

«Ciao».

«Come è andata oggi?»

«Tutto bene, la solita. Tu?»

«Anch’io, la solita».

Messaggi neutri, privi di comunicazione.

Silenzio. La testa di lui fissa sullo schermo della tv.

Fuggo in camera. Mi tolgo i vestiti da lavoro e indosso la tuta. Non è il massimo della sensualità, lo so. Ma lui non mi ha guardata in faccia. Al solito. Non sa come mi vesto, se sono truccata, se ho gli orecchini. Sono trasparente.

«Che ci mangiamo?» Urla dal soggiorno.

Lo raggiungo e mi dirigo direttamente ai fornelli. Tolgo la tazza della colazione che lui ha lasciato, come ogni mattina, sulla tavola, insieme a una marea di briciole. Mi avvicino al lavandino ed è pieno di carta, residui di cibo. Mi giro e gli dico «ma lo sai che esiste il cestino dell’umido che non corrisponde al lavandino?». Alla mia sarcastica domanda, storce il muso e alza gli occhi al cielo. Come al solito, non gli si può dire nulla, penso.

Resta seduto sul divano. La testa ha cambiato posizione. Ora è fissa sullo schermo del telefono.

«Mi guardi in faccia almeno quando ti parlo? Ti sembra normale? Torno dopo una giornata distruttiva e tu, che non fai un cazzo dalla mattina alla sera, sai solo chiedermi cosa mangiamo?».

«Che pesantezza, non cominciare». Si limita a rispondere, sbuffa insofferente.

Voglio contare fino a dieci. So già dove andiamo a parare se provo a dialogare. Dopo cinque secondi, non resisto. La discussione degenera. Mi riempie di parole pesanti. «Deborah» mi urla. «Mi hai rotto le palle. Mi fai mancare l’aria, non mi piaci più! Sei incontentabile, asfissiante». Sbatte la porta e se ne va.

Che non gli piacessi più è evidente da tempo. Non sfiora il mio corpo da circa sei mesi. Dorme sul divano se io sono nel letto, o viceversa. Ci alterniamo, come perfetti coinquilini.

Questo il quadro della mia vita da quando mi sono trasferita per lui, da Milano.

Un bel quadretto del Mulino Bianco, da ristrutturare dalle fondamenta.

Enrico costruisce gazebi di legno. È un artigiano e lavora saltuariamente. Perennemente insoddisfatto, apatico, spento. Niente sesso, niente vacanze, niente di niente.

Nessun interesse culturale o impulso passionale. La condivisione del nulla cosmico, tra di noi.

L’ultima volta che abbiamo fatto qualcosa insieme risale a mesi fa, in una delle nostre magnifiche serate buttati sul divano a cercare affannosamente qualcosa che riempisse il nostro tempo. Lui mi sbadiglia in faccia. Gli dico «che vuoi vedere? Dai non ti addormentare».

«Non lo so, ho sonno, dai domani andiamo a cena fuori, io e te. Ora fammi riposare, sono stanco». Questa la massima espressione del suo entusiasmo. Si gira dall’altra parte, la guancia spiaccicata sul cuscino e buonanotte. Dopo trenta secondi esatti non posso neanche più seguire la tv perché russa come un ghiro. Serata tipica.

Il giorno dopo, sono piuttosto euforica all’idea di fare una cena fuori soli, io e lui. Finalmente posso indossare l’outfit che ho comprato un mese fa a Milano e che è ancora nuovo nell’armadio. Più che il desiderio di un momento intimo con lui, mi rincuora la parvenza di normalità a cui possiamo ambire stasera, come avviene per tutte le coppie, che hanno desiderio di stare insieme.

Con lui mi annoio, o meglio, dopo dieci anni di fidanzamento, se pur intervallato da lunghi periodi di distanza, siamo appiattiti: Questa la verità!

Arriviamo in un bel ristorantino sul lungomare di Termoli. Il posto molto chic. Il cameriere ci raggiunge per farci scegliere il tavolo, carino, penso. Mi fissa con sguardo intrigante. Enrico non si accorge di nulla, oppure non è interessato.

Nell’osservare quel posto romantico penso a Stefano, alle nostre serate di sesso sfrenato nei week end milanesi. Quando me la spassavo. Un brivido mi scorre lungo la schiena, al sol pensiero.

Volgo lo sguardo a Enrico e ripiombo nella realtà. È intento a seguire la partita di calcio al cellulare. Il suo viso di nuovo fisso sullo schermo. Anche qui. Non ce la posso fare. Una serata di merda.

Torniamo ad oggi che è meglio, o forse peggio. Lui è andato via. Ho il magone allo stomaco. Mi butto sul divano e resto a fissare il soffitto, per una manciata di minuti. Mi sento ingabbiata, frustrata.

Lo sguardo mi cade sul suo tablet, ai piedi del divano. L’ha lasciato aperto, è proprio un rincoglionito, mi dico.

Lo prendo in mano e non riesco a scrivere. Tremo. È più forte di me. Voglio sapere. Devo capire come passa le giornate. Riesco dopo vari, goffi tentativi, ad aprire la cronologia.

Ultimi collegamenti. Pagine su pagine di video porno, chat erotiche, sesso online; siti di scommesse, ricevute di pagamenti quotidiani, per tutta questa merda. Ecco come passa i pomeriggi, le nottate il mio uomo. Come un vizioso pervertito. Porco!

Ecco perché continua a chiedermi soldi. Ecco perché non si fa sesso da mesi.

Mi si spalanca un mondo. Il mondo malato di Enrico.

La testa tra le mani, il tablet sulle ginocchia con le sue chat aperte e la rabbia che sale. Spaccherei tutto.

Come mi sono ridotta? Urlo disperata. Come ho potuto rinunciare a tutto, per un essere simile?

Mi crolla il mondo addosso.

Capisco di aver vissuto questi tre anni, da sola. Nell’illusione di qualcosa che non è mai esistito.

È il momento di fuggire dalla melma. Il primo pensiero nasce spontaneo. Dove cazzo me ne vado, ora?

****

Eccomi qui, nella nuova casa. Sono passati 4 mesi dalle sabbie mobili in cui ho vissuto quegli anni, dal giorno di quella che chiamerei nauseante scoperta del suo mondo malato.

Non riuscivo a prendere una decisione. Non posso vivere con te ma neanche senza di te, era diventato il mio mantra quotidiano, come una maledetta fottuta droga, che sai che ti fa male ma di cui non riesci a fare a meno.

Ogni giorno mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo donna.

Tutto scorreva senza reazioni. Enrico non voleva rotture di coglioni, dialogo neanche a pensarlo.

La consapevolezza dell’assenza totale di senso a quella vita, aumentava di giorno in giorno. Una sera trovo il coraggio, di smuovere le acque. Di sentirmi viva.

Mando un messaggio a uno che conosco a malapena, l’ho conosciuto al mare, per puro caso. Lo tradisco. Ma il sesso che ottengo non risolve niente. Nulla da fare, non riesco ad andare via neanche così, da quella fottuta melma.

Poi, un giorno come tanti, dopo pranzo, vado in camera e lascio il telefono sul tavolo.

Dopo pochi minuti torno in cucina e lui è immobile, con lo sguardo nel vuoto e il cellulare in mano. Ha aperto la chat e ha la prova che abbia sentito un altro uomo, che l’abbia incontrato.

«Prendi le tue cose e vattene. Lo sapevo» dice con le lacrime agli occhi. «Aspettavo solo conferma, ma la colpa non è tua. Era finita da tempo». Mi sorprendo, non è incazzato. Ha cercato un pretesto e trovato il coraggio con quella chat, per farla finita.

Provo a difendermi, a monosillabi. Mi arrampico sugli specchi. Sono nel panico.

Capisco che le mie difese non servono, non gli interessano. E questo fa più male di tutto.

Se ne va. Mi lascia li, sola nella mia disperazione.

La resa dei conti è arrivata. Il momento di affrontare il mostro è ora.

Passo dei giorni terribili, mi dà il tempo di trovare una sistemazione. Momenti di tristezza si alternano a momenti in cui mi sbatte in faccia la sua decisone irrevocabile e la sua ormai totale assenza di amore. Non si torna indietro. La bomba è esplosa.

Questa la mia storia, di dipendenza affettiva e del suo mondo malato, un connubio perfetto, che sembrava non potesse finire mai.

Oggi eccomi qui. Da sola, vicino al mare. Quando mi viene la malinconia, mi fumo una sigaretta al rumore delle onde e aspetto che passi. Piango tanto, m a volte splende anche il sole, ed è bellissimo.