Lo sguardo che penetra

Il primo sguardo alla struttura mi inquieta, il rumore delle chiavi che sbattono tra loro in mano all’agente penitenziario, chiavi enormi, color oro che sembrano finte, che chiudono la porta alla libertà di quegli uomini incrociati lungo il corridoio, uomini un po’ trasandati con gli occhi spenti ma vivi, fermi a fissarmi, incuriositi.

Il rettangolo per l’ora d’aria cupo, piccolo, triste e un detenuto che cammina per quei pochi metri avanti e indietro. Mi chiedo a cosa stia pensando, chissà, forse è appena entrato e non sa cosa la vita gli riserverà, cosa troverà in quel posto così grigio alla vista, cosa ha lasciato fuori.

Davanti a lui solo l’ignoto, oltre la porta di metallo per entrare, la perdita del controllo della sua vita, ora in mano a quel luogo oscuro.

Percepisco una mancanza d’ossigeno e ho bisogno di fare un respiro profondo prima di proseguire.

Andiamo avanti. Ci fermiamo in cucina, nella stanza adiacente. Qui incontriamo un gruppo di ragazzi. Mi colpisce il viso di un detenuto dai capelli biondo platino che dice di aver perso 30 Kg. Ha uno sguardo dolce, intenerito.

Quei detenuti hanno uno sguardo che penetra l’anima. Lo sguardo di un bambino incuriosito dall’esterno, intimidito. Lo sguardo di chi è chiuso li dentro ma è aperto verso la vita. Lo sguardo di chi ha qualcosa da insegnarti.

Negli uomini della sezione della custodia attenuata trovo creatività e un senso di pace. Un posto pieno di laboratori e di vita. Marmellate di pomodori, marmellate di cipolle, limoncello e l’entusiasmo di mostrarci ciò che prodotto e realizzato con impegno e devozione. Un posto accogliente, in cui incontro Pietro e Paolo. Pietro è un ragazzo sui trent’anni che mi racconta la sua esperienza. Sta scontando il suo decimo anno di carcere. È uscito l’anno scorso dopo 9 anni per la prima volta e dice di essere rimasto colpito dall’uso dei cellulari. Quando lui è entrato non esistevano. Lui non li conosce. Mi resta nella mente la sua frase: “Il pericolo è più alto fuori che qui dentro, perché noi abbiamo già capito dove abbiamo sbagliato”. Un ragazzo socievole, affabile, mi dà l’impressione di essere integro più di tante persone incontrate nella vita all’esterno del carcere. Ci regala i fiori di carta fatti a mano insieme al fratello, in carcere anche lui. Li vende. Sono bellissimi.

Poi c’è Paolo che crea delle vere e proprie opere. Quadri, statue, pietre colorate e dipinte, tutto a mano.

È un bel ragazzo, interessante e pieno di passione per ciò che fa.

Incontriamo anche Giuseppe orgoglioso della sua coltivazione di funghi, che ci taglia e ci offre del pandoro. Quanta diponibilità e quanta voglia di comunicare nei suoi gesti.

E poi il giovane della pasticceria che passa la maggior parte del suo tempo a sciogliere cioccolata a fare cornetti e perfino pandori, per poi rientrare in cella a dormire, la sera. Racconta che la sua vita è tutta lì, nell’impegno del suo lavoro. Sembra un ragazzo pulito. È rispettoso, dai modi educati.

Evito di chiedere i reati che hanno commesso, sono molto curiosa della vita dei detenuti prima del carcere, di sapere loro storia, ma preferisco non essere invadente.

Scopro una parte bella del carcere. La vita fatta di piccole cose, di gesti della vita quotidiana, di scuola, di laboratori, di cura per l’orto e di impegno nel lavoro. Gli uomini che ci vivono dentro, che ti restano dentro.

Sono persone come le altre, esseri umani che nel loro percorso fatto di sbagli, condanne e tanto lavoro su sé stessi mi appaiono diverse da chi vive fuori, libero ma schiavo di tanti di errori quotidiani e cieco di fronte agli stessi. Perché è proprio vero che l’errore ci rende umani e grazie proprio alla nostra capacità di sbagliare siamo in grado di apprendere dall’esperienza, di conoscere e crescere.

Queste persone mi hanno trasmesso tanta umanità.

Perché “l’uomo non è il suo errore”.

Grazie per avermi arricchita con la vostra testimonianza.

 

Carcere di Larino, 18.12.2018

Monia Di Toro