Un senso nella notte

La strada che conduce alla casa è in gran parte sterrata. L’ho percorsa solo una volta e non so se la ricordo.

Mi dirigo sul lungomare verso nord e raggiunta la rotonda che segna la fine dei lidi balneari, svolto verso l’interno. Rallento e dò uno sguardo al finestrino per osservare la spiaggia, come a cercare un po’ di quiete che solo la sensazione dello iodio sulle ossa può aiutarmi a trovare. È già buio e il mare si confonde col cielo.

Termoli è deserta.

Il vento alza le onde e il profumo di salsedine giunge fin dentro l’abitacolo, riportandomi al calore della sabbia che scotta tra i piedi, che ti costringe a correre a riva.

Amo stendermi al sole, assaporare il fuoco sulla pelle finche’ le membra sembrano bollire e poi tuffarmi nell’acqua gelata per godere dello shock termico e del sale sul viso.

Il rettilineo sembra interminabile, ad un certo punto dovrei svoltare a destra, ma non so a che altezza.

Proseguo un po’ incerta, cerco punti di riferimento che possano aiutarmi, ma non trovo nulla. Un animale fa uno scatto dal ciglio all’altro e mi taglia la strada, credo sia una volpe, mi attraversa un brivido lungo la schiena, forse sto sbagliando strada.

Uno sguardo all’orario: le venti e trenta. Sono in ritardo! Fabio mi aveva raccomandato di raggiungerlo prima di cena, cosi avremmo potuto fare un aperitivo. Non c’è nulla da fare. La puntualità non è il mio forte.

Dopo un po’ di chilometri, vedo una stradina sulla destra non molto visibile. La imbocco con una sferzata, stavo per oltrepassarla.

Il vento forte fischia e il fruscio degli alberi inquieta. Per fortuna una mezza luna fa capolino nel cielo e illumina il paesaggio da film horror.

Alzo al massimo l’aria calda. Sento freddo e la camicetta in raso non è proprio consona all’ambiente circostante.

Un paio di chilometri e dovrei arrivare: case rustiche sparse qua e là e all’orizzonte la tenuta Rago in tutto il suo splendore. Un complesso di tre ville in stile greco, recintate da un muro di cemento bianco che sembra proteggerle dall’esterno. Un contrasto di ricchezza in mezzo alla brulla campagna molisana.

Per fortuna ha smesso di piovere. Mi guardo allo specchio prima di scendere dalla macchina e mi do una sistemata alla coda. Qualche ciocca è uscita fuori dall’elastico. Ho fatto una fatica immane a fare crescere i capelli e ora li porto sempre legati. Una contraddizione, come tante della mia vita.

Mi ha lasciato il cancello aperto. Non dovrebbero esserci rischi, tutto tace.

Lo apro con cautela, dò uno sguardo generale all’interno prima di spalancare la porta, come un ladro che sta per invadere una proprietà privata.

Mi avvio per la stradina che porta alla casa, in fondo. Sento il profumo della legna tagliata, riposta ai lati, e l’odore del manto di erba bagnata, curata e livellata alla perfezione.

Giungo davanti alla facciata dell’abitazione, dalla finestra vien fuori la luce gialla della stufa a pellet che illumina fino all’esterno.

Busso alla porta con le nocche e Fabio mi apre dopo pochi secondi.

“Ciao Vanessa, vieni, entra”. Abbassa lo sguardo e si gira.

“Ciao Fabio”. Rispondo mentre lo osservo di spalle dirigersi in cucina. Il suo profumo legnoso e fresco, un misto di cuoio e lavanda, lascia una leggera scia che mi inebria i sensi. Guardo il suo stile, che alimenta il mio desiderio. La camicia bianca, il maglioncino blu in viscosa, il pantalone a sigaretta aderente sul fondoschiena e sulle gambe dritte e toniche, nonostante i suoi cinquant’ anni.

Mi levo il cappotto e mi aggiusto la gonna in maglina che è salita e ha scoperto parte delle autoreggenti.

“Che le hai detto?”. Rompo il ghiaccio con la domanda secca.

“Che avevo un progetto importante da finire entro stanotte e che sarei andato in campagna per terminarlo. È la verità, ma sono riuscito a finire oggi pomeriggio.” Si avvicina al frigorifero e tira fuori il prosecco.

Prende i due calici dalla dispensa, versa dell’ottimo Valdobbiadene brut, si avvicina al mio viso e mi dà un bacio. Lo sento fin nello stomaco, quel contatto allontana il fastidio per la risposta che ho appena sentito.

Di me non chiede nulla, non è interessato.

Per mio marito che dorme beato anche se non rientro, non mi sento in colpa.

“Tu, hai lavorato, oggi?” Si allontana e mi rivolge la domanda, per allungare il brodo.

Sappiamo entrambi il motivo di quell’incontro e i convenevoli servono solo a renderlo piu’ autentico.

“Ho depositato delle note conclusionali di una vecchia causa di una servitù di passaggio, ma c’era ben poco da aggiungere, gran parte dell’istruttoria si basava su prove documentali, una noia mortale. Tu sai che preferisco il diritto di famiglia, ma ci tocca trattare quello che ci capita.”

Ora mi fissa negli occhi e percepisco salire l’elettricità dal basso ventre fino nelle viscere.

Accende una musica strumentale e una piccola lampada rossa di vetro decorata in stile orientale.

I bicchieri vuoti finiscono sul pavimento. Mi accompagna ad allungarmi sul divano e mi sveste piano piano.

I nostri corpi si uniscono a ritmo di musica. Ad ogni nota, un movimento.

Mi sussurra nell’orecchio “mi sei mancata”. Mi sciolgo in un tremolio che oltrepassa tutto il corpo.

Restiamo abbracciati una manciata di secondi quando sudati, stremati dalla passione, tutto finisce.

Lo guardo negli occhi, quegli occhi un po’sporgenti dalle orbite, con le occhiaie violacee che rafforzano la sua virilità e mi perdo per un lungo istante.

Sono l’amante dell’architetto Fabio Rago.

*****

Rientro in casa alle tre del mattino, cerco di fare meno rumore possibile. Il russare di Giovanni rimbomba tra le pareti, che sembrano vibrare. Mi sale il fastidio all’idea di dovermi stendere al suo fianco.

Ogni tanto si ferma, emette dei soffi con la bocca come se suonasse uno strumento a fiato, poi riparte con il naso. L’alito pesante riempie la camera di un odore che sembra opprimere il petto.

Faccio movimenti a rallentatore, poso le chiavi nello svuota tasche, avanzo a scatti, non accendo la luce, chiudo la porta e la accompagno con le mani. Non ho paura delle sue domande ma non ho voglia di parlarci. Ho ancora addosso la sensazione di piacere, il trucco un po’ sbafato, la stanchezza diversa dal solito.

Vado in bagno, mi sciacquo la faccia mentre pensieri e immagini si accavallano nella testa. Sospiro confusa, mi spoglio in fretta e torno in camera.

Mi inserisco con cautela nel letto, attenta a non svegliarlo, lui si gira e in dormiveglia mi dice “Ma sei tornata ora? Ma che ore sono?” Gli rispondo sottovoce. “Tranquillo, dormi. Sono andata in bagno”.

Non mi preoccupo, so benissimo che tra venti secondi tornerà a russare, beato.

A mio marito non interessa mai approfondire. Per lui non sono più la giovane attraente di un tempo. Per lui la donna dopo i quaranta non va da nessuna parte. E io ne ho quarantadue.

E poi crede che io non sia capace di tradire. Una specie di sua proprietà in disuso da ristrutturare, ma che non venderebbe mai.

Il pensiero torna inevitabile alla serata trascorsa e le emozioni non sono chiare.

Mi giro sul mio lato, rannicchiata, con le gambe piegate, accartocciata su me stessa come a volermi rimpicciolire, accendo il telefono e metto le cuffie per ascoltare qualcosa che possa aiutare a rilassarmi e prendere sonno.

Riesco a fatica, mi sveglio varie volte durante la notte, sudata, con il cuore che batte all’impazzata. Alle sei riapro gli occhi dopo l’ennesima intermittenza e mi alzo a fare il caffè.

Giovanni mi raggiunge in cucina. Con il pigiama sceso sotto la vita e la maglietta bianca della salute, non si degna di guardarmi. Si avvicina al frigorifero, tira fuori il latte, poi apre il mobiletto, prende i biscotti, posa tutto sul tavolo e si siede come se dopo dieci anni di matrimonio vivesse da solo.

Non abbiamo litigato, ma non ci parliamo. Siamo arrivati all’insofferenza. Anche l’odore della pelle dell’altro ci dà fastidio.

Squilla il telefono e mi desta dalla quella scena, che opprime come un macigno sul cuore.

“Buongiorno amore, siamo mattutine oggi, che evento!”.

“Mamma, buongiorno!”. Sorrido alla voce dell’unica cosa buona realizzata nella mia vita.

“Stamattina ho lezione di diritto privato alle nove, per questo sono già superattiva, comunque ho chiamato per un saluto al volo, ciao mami a dopo.”

Mia figlia vive a Milano. È nata quando avevo ventitré anni, dal mio precedente matrimonio.

Il caffè nel frattempo sta per sbollire, mi affretto a spegnere il gas ma purtroppo ne è un uscito un bel po’, è caduto sul fornello e ha sporcato anche le mattonelle della parete. Nulla di grave, in ogni caso.

Peccato che Giovanni non la pensi allo stesso modo. Si gira verso di me e mi urla. “Ma che cazzo fai? Ma vuoi stare attenta? Hai sporcato tutto, sei un’imbecille”.

A quella voce intrisa di violenza, sento una stretta allo stomaco, poi il magone salire. Ci risiamo, penso. La maniacale ossessione per la pulizia è l’occasione per aggredire. Un respiro profondo, due respiri profondi, tre respiri profondi. Abbasso lo sguardo, non rispondo e mi dirigo in camera a vestirmi.

Meglio andare in ufficio prima, stamattina.

****

Qualcuno potrebbe chiedersi: perché non lo lasci? Martina è ormai grande, autonoma.

Negli anni in cui era ancora piccola mi sono sempre raccontata che Giovanni potesse essere un punto di riferimento per lei. Il padre biologico non l’ha mai cercata più di tanto e si è rifatto una vita quando la bambina aveva appena due anni.

Giovanni mi ha sempre creato problemi.

Ho voluto tutelare la bambina e ho pianto in bagno o nel letto quando intorno c’era solo il silenzio.

Ho paura di lasciarlo, della sua reazione e del vuoto senza il veleno di questa relazione tossica. Non sempre sappiamo riempire la nostra vita di cose buone, a volte è sufficiente colmare e basta.

La fame fa fare acquisti sbagliati.

E poi la normalità mi annoia. Mi nutro dell’adrenalina che la sofferenza mi provoca. Altri modi mi spengono. Una punta di masochismo alberga in me da sempre. Un modo per sentirmi viva attraverso il dolore, che è qualcosa di noto. Un modo per sentire qualcosa.

Chiudo la porta dell’ufficio e mi siedo in mezzo alle mille carte sparse sulla scrivania. Il sole tiepido fa sentire il suo calore attraverso le finestre della stanza ed è molto difficile concentrarsi. Un raggio illumina la bella orchidea che mi ha regalato un cliente e si posa sulle note di controparte del divorzio Ferrandina, ferme sulla scrivania già da un po’. Scadono all’inizio della settimana prossima e il peso di quella responsabilità si fa sentire fin nelle tempie.

Gilda Ferrandina ha due gemelli e un marito alcolizzato. In tanti anni di professione non ho mai avuto tanta paura di commettere errori.

Fabio non l’ho sentito, non ci sentiamo mai il giorno dopo i nostri incontri clandestini. Ci sentiamo più tutelati con una certa distanza dopo tanta vicinanza.

Scorro la chat di WhatsApp per leggere gli ultimi messaggi, non l’ho ancora cancellata.

C’è il pezzo di una canzone che mi ha inviato prima dell’ultimo incontro.

Non lasciarmi andar via
Non lasciare che sia
Una stupida storia
Una notte ubriaca
Una sola bugia

Non lasciarmi andar via


Il telefono lampeggia mentre ho le mani tra la testa e lo sguardo in quelle note. Mi sento una ragazzina alla prima cotta.

È mio marito.

“Ti passo a prendere all’una e mezza. Devi venire con me ad un pranzo”

“Oggi?” Rispondo con la paura che sia proprio come penso.

“Si, oggi. Ho una cliente che deve ristrutturare uno stabile per realizzare un B&B, vuole incontrami a pranzo con il marito, per affidare alla mia ditta i lavori. Devi venire anche tu.”

“Ma io oggi non posso, ho delle note importanti che scadono”.

Un attimo di silenzio poi l’esplosione.

“Non posso? Ma questa è deficiente. Ma tu vuoi essere presa a calci nel culo”. Si scalda, il tono si alza.

“Ho un cliente importante e questa se ne esce che non può. Ma come si fa?”.

Il solito pugno allo stomaco mi avvisa di stare attenta alla risposta.

Gli faccio urlare un’altra decina di insulti poi lo blocco.

“Stai calmo, ti aspetto all’una e mezza”. E metto giù.

****

Arriva puntuale, salgo in macchina e sbatto la portiera. Lui mi guarda con una smorfia di disgusto ed esclama: “Ma che ti sei messa oggi? Non ti si può guardare. E poi truccati un po’, sembri una vecchia”. Poi prosegue sulla strada con lo sguardo tronfio.

“Dove andiamo?” Mi limito a chiedere con un filo di voce.

“Da Basso” risponde, senza neanche voltarsi.

Arriviamo al porto. Il ristorante è di fronte all’imbarco per le Isole Tremiti.

Siamo i primi ad arrivare. Ci sediamo al tavolo di fronte alla vetrata, al piano rialzato. L’odore della frittura riempie la sala e come sempre mi fa sentire a casa. Mi ricorda l’amore che nonna Lina metteva nel friggere il pesce per me.

Guardo il mare, i pescherecci sembrano danzare tra le onde e il vento. Sono composta, pongo attenzione ad ogni movimento.

Ad un certo punto dal vetro scorgo una coppia che sta per avvicinarsi all’ingresso e si accinge a salire.

Lui è alto, magro, spalle larghe. Un cappotto blu, un passo elegante. C’è qualcosa di familiare nella leggiadria di quelle gambe, qualcosa che mi turba. Guardo meglio, metto a fuoco. Non ci posso credere.

È Fabio, con la moglie.

Un calore parte da sotto la pianta dei piedi e mi arriva alla testa. Uno di quei momenti in cui, in un minuto, ti passa tutta la vita davanti. Un pensiero cresce con ossessione e il battito cardiaco si moltiplica ogni secondo di più. Adesso come faccio? È proprio lui.

Sento la voce della moglie all’ingresso salutare il proprietario, si trattiene qualche minuto, io sono immobile. Quando il rumore dei loro passi raggiunge le scale, mi giro verso mio marito che è intento a guardare il cellulare. “Vado un attimo in bagno” esclamo.

Fuggo a chiudermi lì, prendo tempo. Resto davanti allo specchio a guardarmi gli occhi del terrore con le mani sul lavandino. Poi prendo in mano il telefono, d’istinto cancello tutte le chat, per eliminare ogni prova del mio tradimento. Ho paura, tutti i segnali di un vero e proprio attacco di panico. Ma non ho scampo. Devo rientrare. Cerco di respirare, non c’è nulla da fare, devo fingere. Apro la porta del bagno con movimento lento. E vado.

Vedo da quella posizione che i due si sono già seduti.

“Vanessa, vieni. Ti presento i coniugi Rago. Lei è mia moglie”. Giovanni mi fa segno con la mano di avvicinarmi. Dopo pochi passi vedo Fabio spalancare gli occhi.  “Vi conoscete?” esclama Giovanni.

Se n’è accorto, penso, è finita. La sensazione che tutto si spenga.

“Credo di averla vista qualche volta in Tribunale, per qualche perizia”. Mi viene di getto questa balla gigantesca.

“Amore, da quando fai anche perizie in Tribunale? Questa mi mancava”. Interviene Claudia, raffinata ma senza particolare charme.

“Può essere, mi è capitata qualche causa in cui sono stato chiamato come perito di parte”. Mantiene il gioco ma non è convincente.

La questione viene chiusa, il pranzo va avanti come nulla fosse, si parla di lavoro.

Io e Fabio non ci rivolgiamo parola. L’aria è tesa e pesante, si potrebbe tagliare a fette.

Dopo il pranzo, salutati i clienti con proverbiale professionalità, finiti i sorrisi e le pacche sulla spalla, contraccambiati da Fabio in visibile imbarazzo, ci rimettiamo in macchina.

Io, nel frattempo, non ho mai smesso di tremare.

Come previsto mio marito si è mangiato la foglia. Non appena chiusa la portiera, si avvicina alla mia faccia, minaccioso “Lo conoscevi, di la verità, grandissima zoccola. Mi tradisci?”.

“Ma che dici? Ma non dire stronzate”. Mi tiro indietro verso il finestrino, impaurita.

“Ho visto le vostre facce, non mi prendere per il culo”. Mi strappa il telefono dalle mani.

“Fammi guardare”. Quell’azione mi rassicura, per fortuna ho cancellato tutto, ma dimentico un particolare. “Non vedo l’ora di vederti”. Legge ad alta voce. “Ma come?” Sgrano gli occhi. Ho tralasciato la chat di Messenger. Questo errore mi costa caro.

Lui diventa una belva, senza possibilità di replica. Penso che la mia vita sia a rischio.

****

Mi sveglio di soprassalto, in un bagno di sudore. Resto immobile, nel letto, nel buio pesto, pietrificata. È stato un brutto sogno mi dico solo un brutto sogno, mi ripeto. Il cuore batte all’impazzata.

Faccio mente locale per capire dove mi trovo, che ora sia. Mi gira la testa per la confusione.

La camicia da notte è arrotolata, fin sopra il seno. I segni dell’orologio sulla guancia. Ci metto un po’ per tornare alla realtà. Sono viva e vegeta, il primo pensiero. Il secondo, mentre mi volto dalla parte di mio marito: Giovanni è ancora qui, al mio fianco.

Il sogno ha raccontato la mia vita, anche se l’architetto Rago nella mia vita non esiste. Ieri l’ho visto per lavoro. Che strano. L’inconscio ha lanciato un segnale. L’incontro deve aver smosso qualcosa.

Avevamo appuntamento alle 18 nel mio studio, dovevo liquidargli una perizia di parte per una causa vinta per vizi di costruzione di un immobile. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere.

Si è seduto di fronte a me, sul bordo della sedia per avvicinarsi il più possibile. Ha inebriato la stanza con il suo profumo dal carattere deciso e ha trascinato la mia mente in posti afrodisiaci e misteriosi. La postura composta, le spalle squadrate e il gesto di aggiustarsi più volte la cravatta con le mani affusolate, un mix micidiale di sensualità e autorevolezza.

Ci siamo trovati subito. Quando è andato via, sull’uscio mi ha detto “Avvocato, la chiamo in questi giorni per la fattura, nel caso potremmo festeggiare con un bel bicchiere di Valdobbiatene…”

Sono tornata a casa turbata.

Freud diceva: “Il sogno è un tentato appagamento di un desiderio”.

Nel sonno, il desiderio fervido ha mostrato la lotta tra sete di tradire e coraggio di farlo. Per liberarmi della gabbia che io stessa mi sono costruita. Per paura di osare e di vivere.

Decido di alzarmi. Vado a fare il caffè, come ogni mattina, mentre barcollo tra le mura che appaiono sbarre, di quella casa che sento gelata, come la mia anima.

Indosso la vestaglia e mi dirigo a proseguire la mia vita, nel mio consueto ambiente tossico, veleno per ogni fonte di energia, che puzza di morte e distruzione.

 

Ma Fabio ha detto che chiamerà….