Marzia

Non mi chiede di sedermi, me lo chiede Francesco, per educazione.

Mi accomodo con loro, perché la mia amica non ancora è arrivata e mi sembra scortese non farlo.

Mi faccio piccola piccola e guardo di continuo l’ingresso, in attesa che lei arrivi, a salvarmi dall’imbarazzo.

Sono stanca morta.

Ho appena finito un atto di appello per una vicenda complicatissima e avverto tutto il peso che una professione di avvocato può farti sentire in una tipica giornata lavorativa.

Le cause per fortuna vanno bene. Il resto meno.

Quando Chiara mi raggiunge, mi alzo di scatto, goffa, per togliere il disturbo.

Sento gli sguardi del tavolo rivolti al mio aspetto non proprio longilineo.

In quel momento, mi sento un’obesa.

Luca mi guarda, annuisce e dice «Si, è meglio che vai, non possiamo stare in troppi».

Così, io a un tavolo, lui ad un altro. Di spalle l’uno all’altro.

Un’ora prima, al telefono, propone con entusiasmo «Stasera stiamo insieme. Mi ha chiamato Paolo, è tornato Francesco da Roma, vogliono portarmi a cena fuori, ma io non voglio andare. Mi dispiace, voglio stare con te. Vado a prendere una birra per salutarli e poi mangiamo insieme, un pezzo di pizza. Due chiacchiere e poi a casa».

«Va bene, come vuoi» rispondo, con tono conciliante.

Dopo mezz’ora, chiama di nuovo. «Ho un problema, non ho finito un lavoro. Non posso trattenermi, devo rientrare subito, ma come faccio? Se non ho la scusa della cena con te, insisteranno perché io rimanga, come mi libero?».

Resto un attimo in silenzio, per rielaborare in pochi secondi cosa abbia detto.

Non lo capisco tanto, ma lo assecondo. Come sempre.

«Posso dire che hai già preso l’impegno con me e fare finta che sia vero».

«Brava, buona idea, facciamo cosi. In ogni caso, noi andiamo al bar Jolly, anche voi, vero? Ci vediamo li».

«Va bene, a dopo». Mi chiedo, ma è normale, che io mi presti a questi giochetti, perché lui non sa dire di no? Boh, non capisco lui, ma neanche me.

Faccio un respiro profondo, meditativo, per tenere la calma.

Ci incontriamo verso le sette e mezza al bar della periferia, quel bar tanto frequentato dai giovani, che ultimamente mi rende un po’ insofferente.

I tavoli sono diminuiti per mantenere le distanze e c’è poca gente.

Non ci andavo da prima del lock down e mi sembra si sia intristito.

Un tempo insieme alla bibita ti dava tante cose da mangiare.

Divoravamo patatine, olive, pizzette e crocchette, prendevamo consumazioni in più per farci portare sempre le “schifezze”, come le chiamavo io. «Andrea, mi porti qualche “schifezza”?» Chiedevo al barista. Era un continuo. Chissà quante volte quel ragazzo mi avrà mandato a quel paese, di nascosto. Ora, che è cambiato tutto, neanche più i nostri “stuzzichini” danno al bar.

Bevo, comunque, la mia solita, bella bionda, non filtrata, ghiacciata, sempre rigorosamente di spalle. Mi viene spontaneo voltarmi di continuo dalla parte in cui è seduto lui.

Lo vedo ridere, totalmente catturato dalla compagnia dei suoi amici, non incrocia proprio il mio sguardo, mi ignora.

«Come va?» Chiedo a Chiara. È venuta per distrarsi un po’, il padre è anziano e non sta bene. Mi guarda, cerca di nascondersi dagli sguardi delle persone e mi risponde «Secondo te quanto durerà? Ci arriva a Natale?» La sua espressione, con quegli occhioni grandi, che si riempiono di lacrime, credo che non potrò mai dimenticarla. Distolgo lo sguardo perché non so cosa fare, vorrei abbracciarla ma non ci riesco e poi, neanche si può.

Cerco le parole giuste e sento salire il magone, «forse, per lui, che è stato sempre in salute, arrivare a Natale significherebbe solo sofferenza, però non so…», non finisco la frase.

Sono le nove, Chiara guarda l’orologio, si alza di scatto, è preoccupata, ha fretta di tornare a casa, mi saluta e va via.

Rimasta da sola, mi avvicino al tavolo di Luca, titubante.

Mantengo una certa distanza, cerco i suoi occhi per trovare un cenno di complicità, come d’accordo.

Paolo mi toglie dall’imbarazzo, si alza e propone «Andiamo a mangiare una pizza, vieni anche tu Marzia, non facciamo tardi. Un’oretta».

Abbasso lo sguardo, tentenno un attimo e con una flebile voce dico. «No, dai, andate voi». Mentre pronuncio questa frase Paolo e Francesco si sono già avviati.

Luca si volta verso di me e dice «allora fatti salutare, dammi un bacio».

Mi limito a rispondere «vai, ti stanno aspettando». Scappo in macchina, lo stereo, alla radio, trasmette Fragile, la canzone di Elisa.

Le lacrime scendono sul viso. Anche stasera, sono sola, come sempre.

Non c’è nulla che lui faccia perché lo senta, quello che fa è forzato da una coscienza sporca. Altrimenti mi usa. Quando ha bisogno.

Per lui io sono sempre lì, devota e scontata.

Non l’ho scelto a caso. Lui è la mia proiezione, è la proiezione di te, papà.

Non è nessuno, rappresenta solo te. Non posso odiare te, papà, ma posso odiare lui.

Questo è quello che penso. Le lacrime continuano a scendere e non si fermano.